Il poliedro dell’educare e la forza di un amore che precede
«Io ti ho amato» (Ap 3,9)
Con questa parola, breve e assoluta, si apre il nuovo anno educativo del Pontificio Oratorio San Paolo.
“Dilexi te” – ti ho amato – non è un semplice versetto da meditare: è la sorgente del nostro essere comunità. È la dichiarazione con cui Dio ricorda a Filadelfia, la piccola Chiesa dell’Apocalisse, che l’amore precede sempre ogni merito, ogni opera, ogni paura.
Filadelfia era una comunità fragile, marginale, senza potere. Ma il Signore la elogia, perché – pur avendo “poca forza” – non ha rinnegato il suo nome. A lei promette riconoscimento e fedeltà: “Verranno a prostrarsi ai tuoi piedi e sapranno che io ti ho amato”.
È la promessa che ci riguarda da vicino: anche noi, come quella Chiesa piccola ma fedele, siamo chiamati a credere che nonostante la nostra debolezza, la fedeltà di Dio non viene mai meno.
“Dilexi te” è dunque la radice del nostro agire educativo e pastorale.
Non si educa per dovere, né per strategia, ma per risposta a un amore preveniente.
È l’amore che consola, riconosce, rialza, custodisce.
È il Vangelo del “piccolo resto”, della Chiesa che non si misura in grandezza ma in fedeltà.
È la voce che ci ricorda che il nostro fondamento non è la forza, ma l’essere amati.
Ritrovare lo sguardo, riprendere il cammino
Ogni comunità, se vuole essere viva, deve saper guardarsi dentro senza paura.
Non per giudicarsi, ma per discernere dove si trova, e in che direzione sta camminando.
Il nostro Oratorio apre l’anno formativo con questo spirito: rimettere a fuoco lo sguardo e ritrovare la rotta.
Viviamo in un tempo saturo di immagini ma povero di visione.
Si scorre, si osserva, ma non si vede davvero.
Anche noi rischiamo di abituarci al “si è sempre fatto così”, perdendo la capacità di leggere i segni dei tempi e i desideri dei giovani.
La miopia spirituale è più pericolosa di quella fisica: perché ci impedisce di vedere le promesse di Dio nascoste nei margini.
Ritrovare lo sguardo significa lasciarsi convertire dal punto di vista di Dio.
Guardare dalle periferie, non dai centri di potere.
Guardare con misericordia, non con sospetto.
Guardare per riconoscere la bellezza di chi, pur avendo poca forza, continua a credere.
La tentazione di chiudersi: paura di incontrare
L’Oratorio è nato per l’incontro. È il luogo dove la vita accade nella forma della relazione.
Eppure anche qui si può insinuare la paura: paura del diverso, del nuovo, del cambiamento.
È più facile organizzare che ascoltare, parlare che lasciarsi toccare, giudicare che accompagnare.
Così le relazioni diventano funzionali, difensive, amministrative.
Ma un Oratorio senza incontro diventa un edificio senza anima.
Ritrovare la fiducia nell’incontro significa riaprire le porte, accogliere le diversità, costruire legami di reciprocità tra adulti e giovani, religiosi e laici, italiani e nuovi cittadini.
Non c’è fraternità senza alterità, non c’è missione senza contaminazione.
Il Vangelo non teme la complessità.
Gesù stesso, nel suo cammino, ha fatto della diversità il terreno dell’annuncio.
L’incontro vero nasce solo quando si è disposti a farsi cambiare dall’altro.
Dalle parole ai fatti: la conversione pastorale
C’è un rischio sottile, nelle comunità cristiane: quello di dire senza fare, di dichiarare senza incarnare.
Cambiamo linguaggi, ma non mentalità.
Parliamo di “cammino sinodale”, ma restiamo chiusi nei vecchi schemi.
Ripetiamo “partecipazione”, ma temiamo la libertà.
Proclamiamo “giovani protagonisti”, ma li vogliamo esecutori di progetti già scritti.
Le parole non salvano se non diventano carne.
Solo la verità delle relazioni, la trasparenza e la condivisione restituiscono credibilità e gioia.
Non serve una nuova organizzazione, serve una nuova conversione.
Guarire le nostre ferite pastorali significa tornare all’essenziale: vederci come Dio ci vede, scegliere la fraternità, vivere la corresponsabilità come dono e non come peso.
Il poliedro dell’educare
Il Vangelo ci insegna che l’amore non è mai a una sola faccia.
Papa Francesco parla del poliedro: una figura con molte facce diverse, tutte convergenti verso un unico centro.
Questo centro, per noi, è la persona — il giovane, il povero, la famiglia, l’educatore, il credente in ricerca — che vogliamo accompagnare alla scoperta del proprio volto.
L’Oratorio San Paolo, fedele alla sua tradizione e al carisma di san Leonardo Murialdo, sceglie di vivere l’educazione come poliedro vivente.
Ogni faccia è un verbo evangelico, un gesto concreto di cura:
- Educare è integrare: perché nessuno si salva da solo.
L’inclusione non è un progetto sociale ma un atto di fede: ogni volto è immagine di Dio.
È costruire ponti tra catechesi, sport, formazione, volontariato, per unire ciò che la vita separa. - Educare è abitare: coltivare gli spazi come casa, non come contenitori.
È vivere la città, la scuola, il lavoro come luoghi di vocazione e non di sopravvivenza. - Educare è liberare: insegnare a pensare, non a ripetere; a discernere, non a obbedire.
Formare coscienze libere è il compito più alto dell’Oratorio. - Educare è legare: generare fraternità, non gerarchia.
Le relazioni educative non nascono dal controllo ma dalla fiducia. - Educare è generare: trasmettere la vita, la passione, la fede.
Ogni educatore è madre e padre spirituale che consegna senso, non regole. - Educare è scommettere: credere nei giovani anche quando deludono.
È la scommessa di Dio sull’uomo: la fiducia che precede ogni risposta. - Educare è condividere: perché nessuno educa da solo.
È il “noi” che salva. È la corresponsabilità che diventa stile.
E infine:
Educare è custodire il fuoco.
Non conservare le ceneri, ma alimentare la fiamma.
Il rischio non è perdere le tradizioni, ma smettere di crederci.
Custodire il fuoco è mantenere viva la spiritualità che dà senso a tutto: la preghiera, la carità, la gioia.
A(r)marsi con cinque ciottoli
Ogni anno porta con sé un sogno e una domanda: come restare fedeli al Vangelo in un tempo che cambia?
Quest’anno, la nostra immagine guida è quella di Davide contro Golia: un ragazzo che non usa le armi della potenza, ma quelle della fiducia.
raccogliamo cinque ciottoli: silenzio, essenzialità, fiducia, gratuità, gioia.
Sono le nostre armi disarmate per affrontare i giganti del nostro tempo — la paura, l’indifferenza, la solitudine, la violenza quotidiana.
- Il silenzio come resistenza alla paura: solo chi sa ascoltare può parlare di pace.
- L’essenzialità come libertà dal superfluo: educare a ciò che vale davvero.
- La fiducia come fondamento di ogni incontro: senza fiducia non c’è comunità.
- La gratuità come stile evangelico: amare senza calcolo, servire senza contare.
- La gioia come segno del Regno: la gioia che nasce dalla comunione, non dal possesso.
Cinque pietre che, nelle mani di Davide, diventano segni di speranza.
Cinque parole che, nelle nostre mani, possono trasformare un Oratorio in una casa di pace, un laboratorio di fraternità, un luogo dove nessuno si senta perduto.
Conclusione:
Il nostro compito, come Oratorio, è custodire la fiamma di un’educazione che salva.
Non un’educazione tecnica o funzionale, ma spirituale, incarnata, generativa.
Ogni giorno, ogni gesto, ogni incontro può diventare sacramento del Ne perdantur: che nessuno si perda, che ognuno trovi la sua dignità, che ogni giovane scopra di essere amato.
Educare è un verbo al futuro.
È la grammatica della speranza.
È il modo in cui Dio continua a dire all’umanità: Dilexi te, ti ho amato.
E da quell’amore nasce la nostra fedeltà.
Don antonio lucente
